Giotto di Bondone

Nacque, secondo la tradizione, a Vespignano del Mugello (oggi frazione di Vicchio, presso Firenze) intorno al 1265. Già i contemporanei riconobbero la sua statura eccezionale; e alcuni decenni dopo la morte era ormai considerato l'artefice principale del rinnovamento della pittura. Oltre l'attività nel campo pittorico, egli fu celebrato anche come architetto e come scultore e le fonti trecentesche ricordano la sua arguzia di cui, a parte i numerosi aneddoti, potrebbe essere testimonianza la Canzone sopra la povertà, pervenutaci sotto il suo nome (Milanesi, 1878).

La data di nascita di G. si ricava da un passo del Centiloquio di Antonio Pucci, scritto intorno al 1373, che indica come 1336 l'anno della sua scomparsa e specifica che "morì d'età di settant'anni". Poiché il gennaio del 1336 stile fiorentino corrisponde al 1337 stile moderno, G. dovrebbe essere nato dunque nel 1267. Tale data, generalmente ammessa ancora oggi (ma che, in ogni modo, andrebbe intesa come indicazione approssimativa), è contraddetta da Vasari (1550), secondo cui G. nacque nel 1276. Anche questa proposta è accolta a tutt'oggi da qualcuno, benché difficilmente conciliabile con la probabile datazione di diverse, importanti opere ancora all'ultimo decennio del Duecento. Da parte sua Ragghianti (1969), basandosi su un documento segnalatogli verbalmente da U. Procacci, ipotizza una data di nascita verso la metà del XIII secolo; ma poiché il documento oggi risulta irreperibile, converrà dar credito a Pucci che poteva conoscere G. di persona.

Intorno al 1310 comunque l'artista era ormai personaggio ben noto in tutt'Italia, ben più di Cimabue, come attestano i celebri versi della Divina Commedia (Purgatorio, XI, 91-96). Intorno al 1313 risale poi (Hankey, 1991) la citazione del maestro nella Compilatio chronologica di Riccobaldo da Ferrara, con un elenco di sue opere nelle chiese francescane di Assisi, Rimini e Padova, nonché nel palazzo della Ragione e nella cappella dell'Arena di quest'ultima città. Poiché il passo s'inserisce nei ricordi del soggiorno padovano di Riccobaldo nel 1306-08, questi anni potrebbero costituire un termine ante quem per i lavori elencati.

Le fonti sono concordi nel considerare il giovane G. formato nella bottega di Cimabue. Ghiberti per primo, e dopo di lui vari altri scrittori, riportano la storia della scoperta del giovane talento da parte di Cimabue che lo sorprende mentre, pascolando le pecore, disegna.

Si tratta evidentemente di un topos della storiografia classica al quale non si dovrebbe attribuire veridicità storica. Più degno di fede sembra il racconto di un commentatore di Dante che, scrivendo alla fine del XIV secolo, ricorda come il giovanissimo G. in un primo momento fosse "posto all'arte della lana" dal padre il quale, solo dopo essersi reso conto delle inclinazioni del figlio, accettò che questi divenisse discepolo di Cimabue (Milanesi, 1878). E forse non a caso G. rimase in contatto con i tessitori anche quando era ormai pittore celebre in tutt'Italia, come dimostra il documento del 1312, che riferisce il caso - sicuramente non isolato - in cui G. noleggiò un telaio a un tessitore (Davidsohn, 1901). Probabilmente anche l'accenno di Ghiberti al padre "poverissimo" di G. sarà un'aggiunta a effetto al suo racconto romanzato; risulta infatti che il padre dell'artista, Bondone di Angiolino, era fabbro e almeno dal 1295 abitava nella parrocchia di S. Maria Novella a Firenze (Schwarz - Theis, 1999). La famiglia doveva essersi trasferita a Firenze allora ormai da tempo e il giovane di talento prima o poi certamente avrà cercato di mettersi in contatto con Cimabue, il maestro allora più acclamato della città.

Un possibile intervento del giovanissimo G. in una tavola (Madonna col Bambino) oggi nel Museo di S. Verdiana a Castelfiorentino, solitamente riferita a Cimabue, ma anche a Duccio e talvolta indicata come eseguita in collaborazione da questi ultimi, è stato recentemente avvistato dal Bellosi (1985; 1998; 2000). L'idea della partecipazione di G. all'esecuzione può lasciare perplessi, ma il panno a taglienti sottosquadri che avvolge il Bambino è indubbiamente simile al panneggiare delle opere più antiche attribuite a G. in Assisi.

Se la Madonna di Castelfiorentino suggerisce per lo meno contatti stretti tra Cimabue e G., non va dimenticato però che ad Assisi il giovane fiorentino compare come continuatore di un'impresa iniziata dal romano I. Torriti e proseguì la decorazione da questo iniziata, affiancato dai collaboratori già presenti in cantiere. Egli s'inserì con agio nel loro lavoro, mostrando di conoscere bene le tradizioni figurative e gli orientamenti di gusto vigenti nella pittura romana di fine Duecento, e la circostanza sembra confermare la proposta tante volte avanzata (Brandi, 1983; Salvini, 1983; Flores d'Arcais, 1995) su una sua probabilmente non breve attività a Roma.

La cronologia e le modalità di svolgimento della campagna decorativa della chiesa superiore di S. Francesco, come pure la consistenza dell'intervento giottesco nell'impresa, restano ancora argomento di dibattito, ma sembra ormai certo che i lavori s'iniziarono nel transetto nord, a destra per chi entra, da parte di un artista "nordico", inglese o francese, affiancato da un collaboratore di cultura romana (da chi scrive identificato con Torriti). Questa prima fase della decorazione, realizzata probabilmente ai tempi di Niccolò III (1277-80), venne presto interrotta. I lavori furono ripresi poi, ormai sotto la guida di Cimabue, che affrescò il presbiterio, completò i dipinti del transetto e iniziò anche quelli della quarta campata della navata. Una consolidata tradizione critica tende a riferire l'intervento del maestro fiorentino ad Assisi agli anni del pontificato di Niccolò III; osservazioni di varia natura suggeriscono però la datazione dei suoi affreschi ormai ai tempi di Niccolò IV (1288-1292; Bellosi, 1985; 1998).

Quando Cimabue, per motivi a noi sconosciuti, abbandonò il cantiere, l'esecuzione degli affreschi delle pareti della quarta campata venne affidata a Torriti. Questi eseguì i disegni preparatori (recentemente tornati alla luce) sulle superfici da affrescare nella quarta e nella terza campata e dipinse di propria mano almeno dodici scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lui spetta probabilmente anche la rovinata e variamente attribuita Cacciata dal Paradiso sulla parete destra della seconda campata, dove, sulla parete di fronte, intervenne un aiuto, denominato Maestro della Cattura, la cui mano è identificabile, accanto al maestro, anche nelle vele della terza campata.

Mentre la decorazione di questa parte della navata era in corso, Torriti scomparve dalla scena, e gli affreschi sulla parete sottostante la Cacciata, con Storie di Isacco, furono eseguiti da un pittore fino a quel momento non presente nell'impresa. Egli mostra di intendere e interpretare i grandi modelli dell'arte classica più correttamente del predecessore e parla un linguaggio potente e icastico. Fin da quando Mather (1923; 1932) staccò queste scene da quelle precedenti per assegnarle a un Maestro di Isacco - da identificare, secondo lo studioso, probabilmente con Gaddo Gaddi - i due affreschi vengono spesso indicati con tale nome convenzionale e si discute sulla vera identità del loro autore, artista indubbiamente di livello eccezionale, che introdusse nel cantiere assisano novità importanti non solo riguardo allo stile, ma anche alla tecnica pittorica (Tintori - Meiss, 1962; Zanardi, 1996). Molti ritengono che si tratti di opere di G., ma altri preferiscono lasciarlo nell'anonimato, considerando il suo linguaggio piuttosto romano che giottesco. È stata proposta anche l'identificazione del pittore con Cavallini (Venturi, 1907; Van Marle, 1923; Paeseler, 1967) e, in anni più recenti, la paternità di Arnolfo di Cambio (Romanini, 1987; 1989), di un'attività pittorica del quale, tuttavia, tacciono le fonti. Oggi, nonostante la diversità dei pareri, nessuno esiterebbe a sottoscrivere la conclusione di Millard Meiss (1960) secondo cui, se il Maestro d'Isacco non è G., allora lui e non G. è il fondatore della pittura moderna.

Se, come sembra assai probabile, la campagna decorativa della navata si svolse durante il pontificato di Niccolò IV, e se Torriti abbandonò il cantiere per far fronte all'impegno del mosaico absidale di S. Giovanni in Laterano, l'improvviso cambio di guardia artistico nella basilica di S. Francesco dovette verificarsi intorno al 1290-91. Poiché il Maestro della Cattura, che aveva affrescato la parete sinistra della terza campata, continuò il suo lavoro anche nella seconda, sembra logico supporre che la partenza di Torriti non abbia provocato interruzioni. Tuttavia, quando intervenne negli affreschi della prima campata, anche questo anonimo subì ormai l'influsso del Maestro di Isacco (cioè del probabile G. giovane).

In realtà vari indizi suggeriscono non solo il ruolo di guida dell'artista che aveva dipinto le Storie di Isacco e che lasciò la sua impronta sulla decorazione della prima campata (della quale eseguì in persona una buona parte), ma anche che questi rispondesse al nome di Giotto. Sia la sua tecnica pittorica, sia la sua visione artistica sono precedenti imprescindibili delle Storie francescane della stessa basilica di Assisi, tradizionalmente attribuite al maestro fiorentino almeno fin dai tempi di Ghiberti. Inoltre, un'innegabile parentela stilistica lega le ultime Storie bibliche della chiesa superiore con dipinti quali la Croce dipinta di S. Maria Novella (attestata come opera di G. allora già da qualche tempo eseguita, in un documento del 1312) e la tavola frammentaria di S. Omobono di Borgo San Lorenzo, una chiesa un po' fuori mano, ma vicina al probabile luogo di nascita di G., dove è difficile pensare all'intervento di un pittore appositamente giunto da Roma. Va ribadito infine che l'esecuzione delle due Storie di Isacco non costituisce un episodio isolato nel contesto della fase conclusiva degli affreschi biblici della chiesa superiore, come hanno sostenuto recentemente alcuni studiosi (Tomei, 1995; Romano, 1996). La razionalità, la sicurezza prospettica della costruzione degli spazi, il convincente rapporto proporzionale fra figure e architettura, la concretezza quasi fisica dei corpi e la solennità classica del raccontare accomunano le due Storie di Isacco con gli altri affreschi della prima campata della basilica.

Certo il giovane G. doveva avere all'attivo ben più della pur grandiosa Croce di S. Maria Novella per ottenere un ruolo di primo piano nel cantiere di Assisi, forse opere oggi perdute, eseguite durante un primo soggiorno a Roma. Le affinità spesso sottolineate dei suoi affreschi con testimonianze della pittura romana - non solo con Cavallini, ma anche con Rusuti, con i frescanti del portico di S. Lorenzo fuori le Mura e di S. Agnese a Roma (gli affreschi duecenteschi della chiesa si conservano oggi nella Pinacoteca Vaticana) e di S. Maria in Vescovio (Torri in Sabina) - suggeriscono che egli avesse potuto trarre spunti da pitture prodotte a Roma e nel Lazio alla fine del XIII secolo (Boskovits, Assisi…, 2000). Il carattere in gran parte romano della cultura del Maestro di Isacco è dunque un dato da non sottovalutare, come pure è giusto tenere presenti le affinità tra le storie bibliche attribuibili a G. nella basilica di Assisi e opere di Arnolfo, lo scultore allora più acclamato di Roma: è vero infine che le Storie di Isacco di Assisi ripropongono, certo radicalmente rinnovata, un'iconografia legata alle tradizioni culturali di Roma (Romano, 1998). Ma sarebbe troppo semplicistico dedurre da tutto questo che l'artista fosse romano, dimenticando gli indizi consistenti di una sua prima formazione cimabuesca.

Per quanto riguarda gli affreschi della prima campata della navata della chiesa superiore di Assisi, la maggior parte della critica recente è d'accordo nel considerarli eseguiti dal Maestro di Isacco (comunque egli si chiamasse) e dai suoi collaboratori. Tra questi ultimi vengono avvistate anche personalità di non scarso rilievo come Duccio, di cui Longhi (1948) e Volpe (1969) notavano interventi solo fino all'altezza della seconda campata, mentre Bologna (1983) gli attribuisce anche brani della prima. In quest'ultima zona Previtali (1967) identificava invece la mano di un altro senese, Memmo di Filippuccio, che avrebbe poi continuato ad affiancare il maestro anche nel ciclo francescano. La complessa vicenda potrebbe essere riassunta nel modo seguente.

Quando l'autore delle Storie di Isacco iniziò a lavorare sulla parete destra, all'altro lato il Maestro della Cattura stava già eseguendo la scena dell'Andata al Calvario. La presenza del nuovo capomaestro comportò una riorganizzazione della bottega e la parte sinistra dell'affresco già iniziato venne completata dal pittore chiamato Maestro della Pentecoste da chi scrive e Maestro dell'Andata al Calvario da Bellosi, che eseguì anche la scena della Crocifissione accanto. A questo maestro, che forse aveva lavorato con G. in precedenza e comunque è da lui influenzato, venne affidata l'esecuzione di diversi affreschi nella campata più vicina all'ingresso: parte della Volta dei dottori, le storie della Coppa ritrovata, dell'Ascensione e della Pentecoste, e alcune figure di santi dell'arco d'ingresso. La notevole complessità e la straordinaria efficacia illusionistica dei suoi fondali architettonici, che forse s'ispirano a modelli classici (Salvini, 1983), lascia pensare che egli eseguisse le sue pitture su disegni e con eventuali interventi di Giotto. Meno chiaramente individuabile è la presenza del Maestro della Cattura nella prima campata. Alla sua mano spettano probabilmente la vela della volta con S. Ambrogio, alcune figure dell'arco d'ingresso e, forse, parte dell'affresco con l'Ascensione. L'artista, al quale è stato attribuito (Boskovits, 1981) anche un Crocifisso dipinto nella Pinacoteca di Trevi, e che per stile si avvicina al frescante della cappella Minutolo del duomo di Napoli (Bologna, Novità…, 1969), rivela un orientamento più arcaico dei compagni e una formazione legata all'arte di Torriti, non senza tuttavia influssi cimabueschi. Le storie restanti dovrebbero essere invece opera dello stesso Giotto.

Sembrano testimoniare la sua mano lo splendido paesaggio del fondo e la frammentaria figura di Caino che si allontana silenziosamente dopo l'Uccisione di Abele, le forme classiche e il forte aggetto plastico della vera da pozzo e il lento agire dei fratelli (dove tuttavia la qualità originaria è diminuita da malintese integrazioni pittoriche) nel Giuseppe venduto, l'absidata edicola all'antica e quello che rimane della figura del protagonista nel Cristo tra i dottori, la grave compostezza e il respiro monumentale del Compianto su Cristo e gli sbalorditivi scorci dei soldati addormentati nella pur rovinatissima scena delle Marie al sepolcro. Si può certo scoprire in queste scene qualche ingenuità, qualche soluzione meno felice ma, come ormai la maggioranza degli studiosi riconosce, è nelle Storie bibliche della prima campata che si dispiega interamente il messaggio fortemente innovativo, di cui le Storie di Isacco costituiscono solo il primo paragrafo. Restano infatti isolati il tentativo di datazione tarda e il giudizio riduttivo formulato su questi affreschi dallo Stubblebine (1985).

Oltre la parte conclusiva del ciclo biblico di Assisi, appartengono a questa fase del maestro anche le già ricordate tavole di Borgo San Lorenzo e di Firenze; opere accostabili alle pitture murali per considerazioni di stile, anche se prive, o quasi, di sicuri punti di riferimento cronologico. Le affinità più strette con gli affreschi si avvertono comunque nella frammentaria Madonna di Borgo San Lorenzo, dove la fissità concentrata dello sguardo e il nitore aspro della definizione delle forme sembrano suggerire una data di esecuzione molto vicina al momento dell'intervento del maestro nel ciclo assisano. Nel Crocifisso di S. Maria Novella invece l'emergere potente delle forme si caratterizza per una finezza dei passaggi tonali e per una tenerezza di sentimenti che non trova confronto negli affreschi ed è probabilmente indice di una data leggermente successiva. A questo riguardo, a parte il tentativo di Nomura (1987) che sulla base della presenza di presunti caratteri arabi nella decorazione incisa lungo i margini della tavola crede di poter fissare la realizzazione dell'opera sul 1288-89, disponiamo del termine ante quem, sicuro ma lontano, del 1312, anno in cui il testamento di tale Riccuccio di Puccio ricorda esplicitamente il dipinto (Milanesi, 1878) come opera di Giotto. Esistono comunque alcuni indizi utili per una datazione più precisa. Così l'osservazione di Previtali (1967) che il lucchese Deodato Orlandi nella sua Croce datata 1288 (Lucca, Museo di Villa Guinigi) segue ancora il modello tipologico dei crocifissi cimabueschi, mentre in quella datata 1301 (S. Miniato, S. Chiara) propone ormai una tipologia simile al Crocifisso di S. Maria Novella, potrebbe offrire un plausibile arco di tempo per l'esecuzione. Va notato tuttavia che l'immagine del Cristo sulla croce col torso pressoché perpendicolare, le ginocchia piegate e i piedi sovrapposti non è, come spesso si afferma o si sottintende, un'invenzione giottesca, essendo già presente nell'opera di Nicola Pisano (Boskovits, 1971; Gandolfo, 1988). Indizi più significativi per una datazione verso la metà degli anni Novanta sono invece la raffigurazione di una croce simile, seppure caratterizzata da proporzioni più snelle e da una descrizione anatomica più articolata, nella scena dell'Accertamento delle stimmate della leggenda francescana di Assisi. Dunque verso la metà dell'ultimo decennio del Duecento, al momento più probabile della realizzazione del ciclo, la Croce di S. Maria Novella doveva già essere stata dipinta. La scoperta di uno schizzo, raffigurante sempre un Crocifisso di tipo simile, eseguito in una zona marginale della vela di S. Girolamo della chiesa superiore di Assisi (Scarpellini, 1979). A proposito della tavola di S. Maria Novella è stata ipotizzata anche (Toesca, 1929; Brandi, 1983; Gilbert, 1996) la collaborazione di aiuti, ma la maggiore delicatezza di modellato, avvertita da questi studiosi nella figura del Cristo rispetto ai dolenti, era probabilmente conseguenza dell'allora non uniforme leggibilità della superficie pittorica. (È imminente la pubblicazione dell'opera dopo la recente pulitura in un apposito catalogo di mostra).

Vicino al tempo degli affreschi del ciclo francescano si colloca anche la Madonna di S. Giorgio alla Costa di Firenze (oggi nel Museo diocesano di S. Stefano al Ponte), già da Ghiberti (circa 1450) citata fra le opere di Giotto. Ritagliato su tutti i lati, il dipinto ha perso quella possente suggestione di profondità che in origine l'elaborata struttura del trono marmoreo certamente conferiva, ma la salda volumetria delle figure e la stessa somiglianza tipologica del volto di Maria alla Madonna affrescata sopra la porta principale della chiesa superiore di Assisi suggeriscono per esso una data verso la metà degli anni Novanta del Duecento o forse di poco successiva, come sembrano indicare la maggiore eleganza del disegno e il fatto che il motivo del tendaggio del trono ritorna in forma identica nella Croce di Rimini.

Le ventotto Storie della leggenda di s. Francesco, che completano la decorazione della chiesa superiore della basilica di Assisi, celebrate come capolavoro dell'arte giottesca dalle fonti e da parte consistente della letteratura storico-artistica, restano argomento di dibattito non meno vivace di quello sugli affreschi biblici della medesima chiesa.

Benché con ogni probabilità si riferiscano al ciclo francescano sia Riccobaldo da Ferrara, quando parla di pitture del maestro nella chiesa francescana di Assisi, sia Ghiberti, secondo il quale "tutta la parte di sotto" era affrescata da G., le loro indicazioni non sono univoche; e solo il Vasari, nella seconda edizione delle sue Vite (1568), parla esplicitamente di "vita e fatti di San Francesco" dipinti da G. nella basilica. La sua attribuzione venne accolta in seguito da tutte le fonti fino a Della Valle (1791), che dichiara di avere "più d'una ragione per dubitare che tutte le pitture sieno di Giotto". La critica del primo Ottocento ha tentato poi di distinguere le parti eseguite dai vari artisti partecipanti al ciclo, a volte negando del tutto la presenza di G. nell'impresa, considerata non di rado di data ormai ben inoltrata nel XIV secolo. Si spiega con queste premesse l'opinione di Crowe - Cavalcaselle (1864) che giudicano gli affreschi opera in parte di seguaci di Cimabue e in parte di pittori romani, tranne la prima e le ultime tre scene, eseguite forse da G. stesso. Solo con il volume di Thode (1885) comincia a prendere corpo la schiera di studiosi che ritengono il ciclo ideato e almeno in parte eseguito da G., contrapposto al gruppo pure numeroso dei dubbiosi, che negano l'intervento di G. negli affreschi, considerati stilisticamente inconciliabili con l'arte del maestro. Gli scettici vedono negli affreschi per lo più opere di seguaci del maestro, di artisti forse romani, intorno al 1300 o poco dopo.

Dalle discussioni, comunque, cominciano a emergere in questi ultimi decenni anche alcuni punti sui quali il consenso è praticamente unanime. Così, a parte un'unica voce dissenziente (Stubblebine, 1985), è da tutti abbandonata ormai la datazione degli affreschi in pieno Trecento e l'ipotesi di un'esecuzione che si sarebbe protratta per molti anni. Si è in genere concordi pure nel ritenere le Storie francescane ideate da un unico artista il quale, sia nell'impaginazione, sia nella scelta del repertorio ornamentale, seguiva i dettami della tradizione pittorica romana. Dopo le osservazioni tecniche di Tintori e Meiss (1962) si considera la prima storia della Leggenda (Omaggio del semplice a s. Francesco) eseguita per ultima, e si riconosce la stessa mano anche nell'esecuzione delle tre (o più) scene conclusive del ciclo. Lo studio di Zanardi (1996) sulla condotta pittorica tende poi a confermare il parere di coloro che avvertono stretti rapporti stilistici tra gli affreschi più antichi del ciclo francescano (scene II-VII) e quelli riferibili al Maestro di Isacco. Ne consegue che è lo stesso Maestro di Isacco a riprendere il lavoro nella zona più bassa delle pareti della navata, eseguendo parte almeno degli affreschi tradizionalmente ritenuti di Giotto.

Dalle ricerche di Zanardi si evince che l'esecuzione probabilmente non richiese più di circa due anni e che l'équipe di pittori lavorava sulla base di una precisa divisione dei compiti: quelli addetti all'esecuzione di parti non figurative procedevano con una certa velocità, dipingendo simultaneamente più scene, mentre quelli che eseguivano le figure lavoravano più lentamente, seguendo un disegno murale approntato dal maestro principale.

Tra le caratteristiche sempre avvertite nel ciclo francescano il primo posto spetta forse alla marcata volumetria dei personaggi, collocati in spazi chiaramente definiti i quali, piuttosto che semplici contenitori, costituiscono un elemento complementare dell'azione (Offner, 1939). Coglie nel segno anche l'osservazione di Toesca (1941) che nota la geometrica precisione riservata al rilievo dei corpi. È stata giustamente sottolineata poi l'attenzione prestata dal pittore alla partecipazione emotiva delle figure alle azioni. Non è condivisibile invece la conclusione tratta da queste caratteristiche da Rintelen (1912), da Offner (1939) e da altri, che avvertono nella Leggenda francescana di Assisi una visione sostanzialmente naturalistica, estranea alla pittura del maestro che affresca la cappella dell'Arena. È innegabile in ogni modo che il ciclo francescano sia un'opera di altissimo livello artistico e un'opera pienamente giottesca, e sarebbe ben strano se fosse stato un altro pittore per il resto sconosciuto ad anticipare qui i modi di G. stesso (Poeschke, 1985). Quanto invece alle presunte differenze morfologiche tra le Storie di s. Francesco e la decorazione della cappella degli Scrovegni a Padova, esse sono facilmente spiegabili con la maturazione della visione del maestro.

Un aspetto del ciclo francescano di Assisi che è stato varie volte discusso dalla critica più recente è la novità dell'inquadratura architettonica delle scene dispiegate dietro il colonnato che articola la parete delle campate. Il colonnato sorregge un architrave sormontato da una cornice, la cui resa, otticamente convincente, contribuisce all'effetto realistico degli spazi; e poiché la convergenza delle linee ortogonali suggerisce un ideale punto d'osservazione al centro delle singole campate, ne ribadisce anche l'unità compositiva. Si tratta, naturalmente, della riproposizione di un motivo desunto dall'arte tardoantica, ma che nella basilica di Assisi ottiene un'efficacia ottica mai vista in passato. Il complesso programma iconografico degli affreschi, basandosi sulla Legenda maior di s. Bonaventura di Bagnoregio, presenta la vita e i miracoli del fondatore dell'Ordine francescano confrontandoli con gli episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento dipinti nei registri superiori. Non è noto l'autore di tale programma, ma è verosimile che fosse il teologo Giovanni da Morrovalle, generale dei francescani tra 1296 e 1304, che Vasari indica quale committente del ciclo e il cui generalato può essere considerato come termine a quo per l'esecuzione degli affreschi. Ultimamente però si tende a riferire l'esecuzione ai tempi di Niccolò IV, tra 1290 e 1292. In realtà fra Giovanni fu nominato maestro di sacro palazzo apostolico fin dal 1291, e quindi potrebbe avere ordinato l'esecuzione delle pitture anche prima di essere eletto generale. È difficile comunque che il suo ruolo nell'esecuzione del ciclo fosse frutto della fantasia di Vasari.

Come si è detto, la parte più antica del ciclo è quella che inizia con la scena II (Dono del mantello). Restano ancora frammenti nelle pareti di una struttura lignea che divideva la navata all'altezza della scena I; ed è stato ipotizzato che proprio a causa di questa divisione si rimandasse l'esecuzione della scena I (Salvini, 1965; Romano, 1995). Tuttavia è più verisimile che l'affrescatura s'iniziasse, come è normale, con la scena I di cui, prima ancora che il ciclo fosse completato, si decise di cambiare il soggetto. La scena II, come pure quelle successive della terza campata, e la scena VII nella seconda (Approvazione della regola), costituiscono un'unità stilistica caratterizzata dalla stretta vicinanza agli affreschi del gruppo del Maestro di Isacco dal punto di vista sia delle scelte artistiche che tecniche. Ciò potrebbe significare, come vogliono alcuni studiosi (Previtali, 1967; Bellosi, 1981; Blume, 1983), che gli ultimi affreschi del ciclo biblico e i primi della Leggenda francescana fossero eseguiti senza soluzione di continuità. In realtà, però, rispetto alle Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, quelle di s. Francesco mostrano un disegno più sommario nelle figure e, allo stesso tempo, scenari architettonici più complessi, con edifici e oggetti presentati non solo frontalmente ma anche ad angolo, con soluzioni nelle quali si può sospettare un riflesso del "secondo stile pompeiano" (Gioseffi, 1963). Tali novità, insieme con numerose, vivaci osservazioni tratte dal vero nelle singole storie, suggeriscono che il ciclo francescano seguisse dopo qualche tempo l'affrescatura delle zone più alte della navata della chiesa superiore e illustrasse l'ulteriore maturazione del linguaggio del maestro principale. Inoltre, la notevole somiglianza tra le raffigurazioni dei vari papi nella Leggenda francescana e i ritratti di Bonifacio VIII (1294-1303) lascia pensare che l'artista volesse ritrarre il papa in carica e quindi il ciclo non fosse iniziato prima della sua salita al soglio pontificio.

Quanto alle modalità dello svolgimento del lavoro, ferma restando la sostanziale omogeneità stilistica del ciclo, non v'è dubbio che esso venne realizzato da più pittori, se non addirittura da due squadre attive simultaneamente (Previtali, 1967; Zanardi, 1996). Se ciò nonostante il linguaggio stilistico non cambia e gli interventi dei collaboratori rimangono abbastanza chiaramente distinguibili, vuol dire che il maestro che aveva eseguito buona parte delle ultime Storie bibliche e proseguiva il lavoro nelle prime scene (II-VI) della Leggenda francescana, continuava la sua attività con un ruolo di guida nel cantiere. È lui, in sostanza, l'autore del ciclo, il cui eccezionale livello qualitativo ci assicura che si tratta di G., come attestano già le fonti. Emerge tuttavia, a cominciare dalla XVI storia (Morte del cavaliere di Celano), come aveva già visto Previtali e prima di lui ipotizzato Toesca (1946), la mano di un aiuto che, fino a quel momento assente dal cantiere, si conquistò in seguito uno spazio sempre più ampio nell'impresa ed eseguì da solo le scene XXV-XXVIII, nonché la scena I sulla parete opposta. Doveva trattarsi di un maestro che godeva della piena fiducia di G. e all'arrivo del quale si possono forse attribuire anche alcuni cambiamenti avvertibili nell'organizzazione del lavoro della squadra dei pittori (Zanardi, 1996), a cominciare, appunto, dalla XVI storia. Non tutti sono d'accordo che si tratti dell'autore anonimo della Pala di S. Cecilia agli Uffizi, identificato prima con Buonamico detto Buffalmacco (Venturi, 1907), e più recentemente con Gaddo Gaddi (Bietti Favi, 1983). Quest'ultima proposta è per lo meno verosimile, visti i rapporti di amicizia intercorsi tra quest'ultimo maestro e G. che, stando a Cennini, era padrino di suo figlio. Certo è comunque che a partire dalla scena XXV (Sogno di Gregorio IX) non solo le caratteristiche della condotta pittorica degli affreschi si modificano, ma cambia anche l'impostazione compositiva delle scene, contraddistinte da architetture spaziose ma fortemente semplificate, abitate da figure allungate che si muovono con eleganza ricercata e riflettono ormai le esigenze del gusto gotico, anticipando i modi del Maestro di S. Cecilia. Alcuni studiosi (Gnudi, 1958; Gioseffi, 1963) hanno pensato addirittura che affreschi siffatti non potessero essere stati eseguiti che a diversi anni di distanza dall'opera di G., ma poiché il Maestro di S. Cecilia interviene ampiamente anche nelle storie precedenti della parete sinistra della chiesa superiore, sembra più probabile che il ciclo venisse terminato senza una interruzione nei lavori, seppure ormai in assenza di Giotto.

L'abbandono di Assisi da parte del maestro in questa fase del lavoro potrebbe significare che egli fosse stato chiamato ad affrontare altri compiti particolarmente importanti. Stando a una informazione spesso negletta di Ferdinando Leopoldo Del Migliore (1681-96 circa) G. fu a Roma ai tempi di Bonifacio VIII e tale soggiorno, sulla base di quanto oggi sappiamo del percorso dell'artista, s'inserisce bene negli ultimi anni del XIII secolo. Già Berenson (1932) e quindi Brandi (1952) e altri hanno indicato come eseguito da G. per questo pontefice un affresco, già nella loggia delle Benedizioni del palazzo lateranense e oggi frammentariamente conservato in S. Giovanni in Laterano. In genere si riteneva trattarsi della raffigurazione dell'Annuncio dell'anno giubilare; ma a parte il soggetto, posto giustamente in dubbio (Maddalo, 1983), pure la paternità giottesca dell'affresco viene contestata da parte di vari studiosi (Meiss, 1960; Previtali, 1967; Boskovits, 1983) e oggi esso viene generalmente classificato come opera di un pittore romano influenzato da Giotto. Probabilmente agli ultimi anni del Duecento risale invece un lavoro di assai ampio respiro, cioè il mosaico raffigurante la Navicella (Gesù che salva gli apostoli dal naufragio e s. Pietro dall'annegamento nel lago di Gennesaret), eseguito da G. nell'atrio della basilica di S. Pietro.

In questo caso la paternità del pittore fiorentino è accertata da una fonte attendibile quale il Liber benefactorum della stessa basilica (Hueck, 1977); ma l'opera, varie volte spostata e restaurata (oggi si trova nel portico dell'attuale basilica di S. Pietro) è praticamente illeggibile e la sua data è oggetto di discussioni. Venturi (1918) e Gosebruch (1962) la consideravano prodotto della tarda maturità dell'artista, datandola intorno al 1320; mentre la maggioranza degli studiosi ritiene più probabile che l'esecuzione avvenisse intorno al 1310, poco prima cioè che G., nel dicembre del 1313, nominasse da Firenze un procuratore per ricuperare masserizie da lui lasciate a Roma. Recentemente però alcuni ripropongono l'ipotesi della vecchia storiografia che colloca intorno al 1300 l'esecuzione del mosaico (Köhren-Jansen, 1993; Schwarz, 1995; Boskovits, Giotto…, 2000). Tale datazione torna a dar credito all'informazione di Torrigio (1618) che indicava l'anno 1298 come quello dell'esecuzione; la data alta sembra essere confermata, infatti, dai caratteri di stile decisamente arcaici dei frammenti sopravvissuti del mosaico, cioè dei due Busti di angeli (Roma, Grotte vaticane e Boville Ernica, S. Pietro Ispano), presumibilmente appartenenti all'incorniciatura decorativa. Non si tratta certo di mosaici di sicura autografia giottesca, ma comunque di brani eseguiti sotto gli occhi di G. che pertanto non potevano essere stilisticamente troppo diversi dal resto dell'opera. Una testimonianza dell'aspetto originale della Navicella ci viene data inoltre dal facsimile eseguito da Francesco Berretta nel 1628, poco prima che il mosaico fosse trasportato all'interno della nuova basilica di S. Pietro (Paeseler, 1941). Certo l'opera già in quel tempo aveva subito dei restauri; tuttavia, la copia, in cui la Lisner (1994) giustamente ritiene di poter leggere ancora i caratteri dello stile di G., ricorda soluzioni formali sia delle Storie francescane di Assisi, sia del ciclo della cappella dell'Arena, confermando quindi una data verso il 1300. Un riflesso di affreschi perduti del maestro potrebbero trasmetterci alcuni affreschi con Storie dell'infanzia di Cristo nella prima campata di S. Flaviano a Montefiascone (Boskovits, Assisi…, 2000).

Nel gruppo di opere dipinte all'indomani del soggiorno romano la più estesa è la decorazione della cappella di S. Nicola nella chiesa inferiore della basilica di Assisi: una commissione proveniente da un potente personaggio della Curia pontificia, quale il cardinale Napoleone Orsini. La cappella era stata costruita probabilmente dopo il 1292-94, quando morì il fratello ivi sepolto del cardinale, e doveva essere già completa della decorazione, quando, nel marzo del 1306, vi venne redatto un documento legale (Scarpellini, in Ludovico da Pietralunga, 1570 circa). Gli affreschi, che comprendono, oltre alle Storie di s. Nicola, immagini dei Ss. Apostoli e una pala d'altare ad affresco, vengono per lo più riferiti alla scuola di G., distinguendovi le mani di un Maestro di S. Nicola, ritenuto presente anche negli affreschi della cappella della Maddalena in questa stessa chiesa e nella cappella dell'Arena a Padova, e di un "Maestro Espressionista".

Mentre la fisionomia del primo risulta piuttosto sfuggente, il secondo è autore noto di diverse altre opere, tra cui gli affreschi del coro di S. Chiara ad Assisi, ed è probabilmente da identificarsi con Palmerino di Guido, pittore lungamente attivo ad Assisi. Ultimamente però alcuni studiosi affermano che G. stesso sia responsabile di brani del ciclo che raggiungono livelli di qualità assai alta e per alcuni versi sembrano anticipare lo stile padovano dell'artista (Boskovits, 1971; Bonsanti, 1983). A favore dell'autografia proposta andrà tenuta presente anche la stretta parentela di stile tra gli affreschi della cappella di S. Nicola e il Polittico di Badia (Firenze, Uffizi), avvertita da vari studiosi (Sirén, 1917; Toesca, 1929) prima ancora che venisse dimostrata l'identità del polittico con quello che Ghiberti vide nella badia fiorentina e attestò come opera di Giotto. Quanto alla data di esecuzione della decorazione della cappella di S. Nicola, alcuni la fissano verso il 1296-97, sulla base soprattutto di considerazioni storiche (Hueck, 1983; Bellosi, 1985); ma la maggioranza degli studiosi propende per un momento più avanzato, entro il primo decennio e forse intorno al 1300-01, quando il cardinale Orsini si trovava in Umbria quale rettore del ducato di Spoleto.

Nel Polittico degli Uffizi, proveniente dalla chiesa della badia (Procacci, 1962), la solennità e gravità delle figure è alleggerita dall'eleganza delle pose e dall'ariosità della loro collocazione nell'ampio spazio definito dalle cornici trilobate. Aspirazioni simili alla grazia delle pose, ma anche ad un clima di affettuosità rivela una piccola Madonna col Bambino nell'Ashmolean Museum di Oxford, già da Sirén (1917) riconosciuta all'autore degli affreschi della cappella di S. Nicola e rivendicata da Volpe (1963) a G., ma in genere retrocessa a prodotto di bottega (Brandi, 1983; Flores d'Arcais, 1995; Tomei, 1995). In realtà questo prezioso cimelio della pittura di G. per devozione privata, che sembra provenire da Perugia (Todini, 1986), probabilmente illustra la risposta del maestro alle richieste di raffinatezza e preziosità rivoltegli da esponenti altolocati della corte pontificia.

Sempre vicina cronologicamente a questa serie di dipinti, ma più legata per stile al ciclo francescano di Assisi, è la grande tavola del Louvre, raffigurante S. Francesco che riceve le stimmate e tre storie della sua leggenda. L'opera proviene dalla chiesa di S. Francesco a Pisa e, sebbene firmata, viene spesso ritenuta di esecuzione non autografa o comunque dipinta con partecipazione della bottega. La prudenza di questi giudizi sembra eccessiva e appaiono del tutto appropriati l'aggettivo "mirabile" e l'affermazione "tutto della mano di Giotto" proposti da Volpe (1963). Sono da tenere presenti poi le palmari affinità stilistiche con il ciclo francescano di Assisi, sottolineate da Bellosi (1981; 1985), il quale giustamente avverte come l'eleganza gotica della predella sia un indizio del nuovo corso della pittura del maestro. Un utile punto di riferimento cronologico per l'esecuzione della tavola potrebbe offrire infine l'iscrizione murata nella facciata di S. Francesco a Pisa, che ricorda un'attività edilizia ivi svolta nell'anno 1300, probabilmente il completamento della costruzione. La stretta vicinanza degli episodi della vita di s. Francesco dipinti nella tavola del Louvre con le analoghe composizioni di Assisi costituisce d'altronde un'ulteriore prova dell'attribuzione del ciclo affrescato a G.; non si tratta infatti di copie pure e semplici (Gardner, 1982), ma piuttosto di repliche, in cui le singole composizioni venivano, come nel Sogno di Innocenzo III, "aggiornate" a piacimento dell'autore. A questo stesso momento, forse precedente al soggiorno romano, appartiene infine la tavola con la mezza figura di S. Antonio di Padova presso la Biblioteca Berenson di Firenze. Si tratta dell'elemento laterale di un polittico disperso che, a giudicare dai dati di stile, potrebbe essere stato destinato alla stessa chiesa di S. Francesco di Pisa (Boskovits, 1975).

Riflette chiaramente gli ideali di eleganza e di nobiltà classica che caratterizzano la decorazione della cappella di S. Nicola ad Assisi e il Polittico della badia, la Croce dipinta del Tempio Malatestiano di Rimini, pervenutaci priva delle tavole terminali (il Cristo benedicente, in origine nella cimasa, è stato ritrovato in una raccolta privata inglese: Zeri, 1957).

La saldezza statuaria del corpo longilineo, modellato con un'ombreggiatura delicata, risulta a prima vista ben diversa dal robusto e tarchiato Cristo della Croce di S. Maria Novella, e ciò spiega probabilmente la difficoltà iniziale ad accettare la paternità giottesca. La critica recente, tuttavia, accoglie concordemente l'autografia dell'opera che completava la perduta affrescatura della chiesa riminese e che esercitò un influsso determinante sulla produzione dei pittori della città romagnola nei primi decenni del secolo. Riguardo alla data, si tende ormai ad accettare la proposta di Gioseffi (1961) che considera il dipinto eseguito negli anni 1302-03.

Dalla città romagnola G. probabilmente passò subito a Padova, forse per lavorare nuovamente in una chiesa dell'Ordine francescano. A parte alcuni fortemente ridipinti Busti di sante nella prima cappella a destra nell'ambulacro della basilica del Santo (Flores d'Arcais, 1984; 1995), sfortunatamente nulla rimane degli affreschi eseguiti dal maestro in quella sede. D'altronde la notizia, tramandataci da Michele Savonarola (circa 1440), secondo cui fu G. ad affrescare il capitolo della basilica del Santo di Padova, trova conferma nei dipinti frammentari ritrovati nella grande sala che si apre sul chiostro. Si tratta di resti di una grande Crocifissione, di scene del S. Francesco che riceve le stigmate, di un Martirio di francescani e di una serie di finte nicchie con figure di Santi e Profeti, dipinte a monocromo. Benché abrase e in parte ridipinte, queste pitture, stilisticamente a metà strada tra gli affreschi della cappella di S. Nicola ad Assisi e quelli della cappella dell'Arena a Padova, nelle parti meglio conservate rivelano qualità pienamente degne di G. (Boskovits, 1990).

È del tutto perduto il ciclo astrologico del palazzo della Ragione, forse eseguito subito dopo la sopraelevazione dei muri perimetrali dell'edificio nel 1306, ma creduto talvolta risalente a un ipotetico secondo soggiorno padovano dell'artista nel corso del secondo decennio (Gnudi, 1958; Flores d'Arcais, 1995). Se il bel disegno del Louvre con Due uomini seduti è veramente da mettere in rapporto con questa impresa, come pensa Bellosi (1978) che per primo lo propose per G., sarebbe comunque da confermare la data entro il primo decennio. La testimonianza principale del soggiorno padovano di G. resta però la decorazione della cappella dell'Arena.

Questa fu costruita, a partire dal 1303, da un ricco mercante della città, Enrico Scrovegni, nei pressi del proprio palazzo. Il 1° marzo 1304 la chiesa doveva già essere agibile e al momento della consacrazione, il 25 marzo 1305, probabilmente già affrescata (Bellinati, 1975). La decorazione consiste di trentasei riquadri con Storie della Vergine e del Cristo, integrate dalla grande scena della Missione di Gabriele e dell'Annunciazione sopra l'arco trionfale, dal Giudizio universale sulla controfacciata, dai medaglioni con immagini della Madonna col Bambino, di Cristo, di Santi e Profeti sulla volta, da busti di Santi, Storie veterotestamentarie e raffigurazioni allegoriche nelle fasce ornamentali, nonché da quattordici immagini delle Virtù e dei Vizi negli zoccoli. Nell'intenzione dello Scrovegni il ciclo doveva essere ancora più ampio, comprendente anche le scene della Morte e glorificazione della Vergine, dipinte poi nel presbiterio da un pittore locale una decina di anni dopo la campagna condotta da Giotto. Il mancato completamento della decorazione e forse della stessa costruzione del presbiterio va probabilmente messo in rapporto con la protesta presentata nel gennaio 1305 al vescovo di Padova da parte dei frati eremitani, che giudicavano l'edificio realizzato dallo Scrovegni più grande e sontuoso di quanto precedentemente concordato. Se le cose andarono in questo modo e G. si trovava ad affrescare un edificio non ancora completo di coro e abside, la circostanza potrebbe spiegare il motivo dell'insolito inserimento nel programma di decorazione dei cosidetti "finti coretti", cioè dei due vani illusionisticamente dipinti, ai lati dell'arco trionfale. Piuttosto che una anticipazione dell'illusionismo spaziale quattrocentesco, c'è da sospettare che in realtà questa singolare scelta alludesse alle cappelle funerarie non realizzate del committente e di suo padre (Schlegel, 1957). Che aggiunte di questo tipo alla cappella fossero previste lo si deduce dall'aspetto del modellino della chiesa, che lo Scrovegni offre alla Madonna nel grande affresco della controfacciata; i "finti coretti" potrebbero essere stati intesi dunque come risarcimento del mancato completamento dell'edificio. Sempre a proposito della costruzione della cappella si può ricordare che modifiche effettuate sull'edificio prima, o al tempo dell'affrescatura, tendono a mettere in dubbio l'ipotesi su G. quale architetto della cappella (Gioseffi, 1963).

La critica si è spesso soffermata a discutere della differenza di concezione, ma anche della condotta pittorica, tra gli affreschi della cappella padovana e il ciclo francescano di Assisi. A Padova le scene vengono presentate senza l'elaborata articolazione architettonica degli affreschi della chiesa superiore, inquadrate da fasce decorative di finto marmo, a loro volta ornate, semmai, da una sobria decorazione cosmatesca. Questo sistema decorativo che non pretende di modificare radicalmente, come avviene ad Assisi, il carattere architettonico dello spazio della cappella, probabilmente fu scelto anche in considerazione delle dimensioni più modeste di quest'ultima, ma riflette nondimeno una più approfondita conoscenza dell'arte classica, del suo repertorio ornamentale e dei suoi procedimenti tecnici (Tintori - Meiss, 1964). Se gli affreschi di Assisi segnano secondo Gnudi (1958) il momento più lirico di G., quelli di Padova rappresentano il "momento più epico della sua poesia". Per Offner (1939) e per Brandi (1983) l'autore del ciclo francescano formulava vere e proprie proposizioni scultoree mentre più discreti effetti di bassorilievo contraddistinguerebbero gli affreschi della cappella dell'Arena. Analizzando le differenze, ma anche le profonde affinità esistenti nei due cicli, Bellosi (1981) giustamente sottolinea che il cambiamento sta soprattutto nel procedimento pittorico, ovvero nella "stesura pittorica più densa… [che] conferisce alle… cose un risalto anche più pieno, ma meno tagliente e accurato" che nei dipinti della basilica di Assisi. Va precisato che non si tratta di un brusco cambiamento, bensì di una nuova tappa del percorso che dal ciclo francescano porta coerentemente alle tavole già a Pisa, agli affreschi della cappella di S. Nicola ad Assisi e quindi via via alle pitture della cappella degli Scrovegni.

Tra quest'ultima impresa e le Storie francescane passarono probabilmente poco meno di dieci anni, un arco di tempo non troppo esteso, ma sufficientemente lungo per spiegare i cambiamenti avvenuti nell'opera del maestro. Le proporzioni fortemente allungate delle figure del Polittico di Badia o della Croce di Rimini vengono ora avvicinate al canone classico, e anche il modo di recitare dei personaggi si modifica. L'azione nel ciclo padovano in genere non giunge al suo acme; tuttavia, il tono alto e solenne del racconto non esclude talvolta particolari di crudo realismo (come nei ritratti inseriti nel gruppo dei risorti del Giudizio universale), o una rustica comicità al limite del volgare (in episodi riguardanti i dannati nello stesso affresco) e persino il cronachistico resoconto di episodi delittuosi (nelle azioni dell'Ingiustizia).

Nonostante sia ritenuta meno scoperta la collaborazione degli aiuti rispetto al ciclo di Assisi (Salvini, 1962), anche qui sono stati individuati brani non del tutto conformi all'altezza di questa opera massima, soprattutto nel grandioso Giudizio universale, ma anche nelle Allegorie dello zoccolo e nelle immagini inserite nelle fasce decorative. Certo G. non avrebbe potuto eseguire il grandioso ciclo in tempi relativamente brevi senza l'aiuto di discepoli; tuttavia si può affermare che "il controllo esercitato dal maestro durante tutto l'arco dei lavori dovette essere dei più severi" (Previtali, 1967). In scene quali l'Incontro alla porta Aurea, l'Ingresso in Gerusalemme, l'Ultima cena, o in molte formelle delle fasce decorative, è avvertibile effettivamente la presenza di aiuti. Si tratta però di collaboratori che non si configurano come personalità autonome. G. sembra essere intervenuto in tutte le fasi e in tutte le parti dell'opera, eseguendo principalmente i volti, ma anche i corpi di figure in pose complesse, lasciando agli aiuti, insieme con i lavori preliminari (la battitura dei fili, le incisioni dirette nell'intonaco, il rilievo delle aureole) le dorature e la pittura delle parti meno impegnative delle scene. È probabile che venisse costruita un'unica impalcatura estesa su tutta la superficie della cappella, facilitando il lavoro simultaneo su più di una scena e l'intervento del maestro dovunque nei dipinti disposti al medesimo livello. Benché in passato fosse argomento di discussione, oggi si può infine affermare che l'esecuzione seguiva l'ordine naturale dell'affrescatura, procedendo dall'alto in basso, piano dopo piano (Basile, 1992).

Fa parte organica della decorazione anche il Crocifisso dipinto su due facce, in origine destinato a stare sul tramezzo e oggi conservato nei Musei civici di Padova. Il carattere più marcatamente lineare della definizione delle forme, la corporatura più fragile e longilinea del Cristo rispetto alla Crocifissione affrescata nella cappella e la decorazione insolitamente ricca della cornice lignea hanno suggerito l'ipotesi sostenuta da diversi studiosi (Longhi, 1948; Previtali, 1967; Volpe, 1967) che l'opera fosse più tarda del ciclo di affreschi, oppure che si tratti del lavoro di un aiuto (Brandi, 1983). In realtà il dipinto, sebbene molto consunto, rivela stile e qualità pienamente degni di G. all'inizio del soggiorno padovano, proprio perché riflette ancora chiaramente gli ideali estetici che connotavano il Polittico di Badia e la Croce di Rimini.

Sono due le opere che probabilmente testimoniano l'attività dell'artista, rientrato a Firenze dopo gli impegni a Padova, verso il 1306-07. L'autografia della Croce di S. Felice in Piazza, spesso qualificata - ma probabilmente solo a causa della sua non buona leggibilità prima della recente pulitura - come opera di bottega e ultimamente assegnata al cosidetto "Parente di Giotto" (Bonsanti, 1992), è stata giustamente rivendicata da Volpe (1967) e riconfermata all'artista da Bellosi (1981). E infatti, insieme con la Maestà degli Uffizi, è questa possente figura a proporre, ma con un linguaggio ancora più coerentemente classicheggiante, le affinità più strette con il ciclo della cappella dell'Arena.

La grande pala, oggi agli Uffizi, proveniente dalla chiesa di Ognissanti presenta il gruppo statuario della Madonna col Bambino su un trono la cui elegante struttura gotica arricchita di guglie, gattoni e aperture trilobate richiama precedenti della cappella dell'Arena, non meno che la tipologia fisionomica dei santi e angeli o perfino l'imitazione illusionistica del marmo mischio nel gradino del trono. Appare pienamente giustificata, dunque, la datazione della tavola prima del 1310 circa, come suggeriscono diversi critici (Gnudi, 1958; Salvini, 1962; Brandi, 1983; Flores d'Arcais, 1995), ma dopo le imprese padovane; mentre Toesca nel 1941, Previtali nel 1967 e Bellosi nel 1981 mostrano di non escludere le possibilità dell'esecuzione prima di Padova.

La sosta relativamente breve a Firenze dovrebbe essere stata seguita, intorno al 1307-08, da un ritorno di G. ad Assisi. La sua presenza nella città umbra si ricava da un documento in cui Palmerino di Guido, un pittore residente ad Assisi, nel gennaio del 1309 restituiva un prestito in nome di Giotto (Martinelli, 1973). Non si conosce il motivo di questo soggiorno; ma la maggior parte della critica recente lo mette in rapporto con l'affrescatura della cappella della Maddalena nella chiesa inferiore della basilica di S. Francesco, fatta eseguire, stando agli stemmi dipinti, da Teobaldo Pontano, vescovo di Assisi.

La decorazione, con le sue sette Storie di Maria Maddalena e le numerose figure di santi e personaggi veterotestamentari, include anche le due scene con la Resurrezione di Lazzaro e il Noli me tangere, che ricordano da vicino le storie analoghe affrescate nel ciclo della cappella dell'Arena. Sia per questo motivo, sia per la pretesa "convivenza… di motivi di giottismo arcaico, di giottismo padovano e di giottismo più tardo" avvertita nella decorazione della cappella della Maddalena (Salvini, 1962), vari studiosi la ritengono opera di "scuola" o per lo meno eseguita in gran parte da collaboratori. Già Gnudi (1958) tuttavia vi avvertiva parti pienamente autografe; e in tempi più recenti vengono sempre più apprezzate le qualità e gli elementi di novità che contraddistinguono gli affreschi, per la maggior parte riconosciuti a G. stesso. Infatti, proprio il confronto con le simili composizioni di Padova prova che quelle realizzate nella cappella della Maddalena non sono copie o varianti di bottega, bensì scene nelle quali G. sviluppa in modo originale e autorevole le proprie proposte precedenti. Le storie della cappella della Maddalena sono in genere meno affollate, senza comparse e dettagli giudicati non strettamente necessari. Maggiore attenzione viene dedicata, invece, all'ambientazione dei personaggi e alla loro caratterizzazione psicologica. Ne sono esempi lo struggente dialogo tra la Maddalena e il Risorto, che si svolge in un paesaggio roccioso, cosparso da piante descritte con botanica puntualità, o il silenzioso stupore dei testimoni, che osservano la Morte della santa mentre prega in ginocchio, o la descrizione divertita del porto nell'Arrivo della Maddalena a Marsiglia.

Quanto agli aiuti che affiancavano G. negli affreschi della cappella della Maddalena, Previtali (1969) distingue parti attribuibili al Maestro della Cappella di S. Nicola e al cosidetto Maestro delle Vele, personaggio fantomatico al quale diversi critici assegnano le Allegorie francescane della chiesa inferiore di Assisi. Lo scrivente (1981; 1993) ha tentato di esporre nel modo seguente quella che a tutt'oggi considera la ricostruzione più plausibile della vicenda: G. stesso avrebbe eseguito tutti gli affreschi, avvalendosi solo marginalmente di interventi di collaboratori. Le composizioni solennemente pausate, gli scenari elaborati in modo originale e certe sottolineature emotive nei comportamenti sviluppano lo "stile classico" di Padova, anticipando ormai taluni aspetti degli affreschi del transetto destro della chiesa inferiore. L'unico aiuto identificabile nell'esecuzione accanto a G. - ma con compiti sempre limitati e ben circoscritti - sarebbe il "Maestro Espressionista", che con ogni probabilità rispondeva al nome di Palmerino di Guido.

Il successivo ricordo documentario su G. è del 1311 e registra la sua presenza a Firenze, dove rimarrà apparentemente fino almeno al 1315. Nel 1313 egli nominò un procuratore per recuperare alcune sue masserizie lasciate a Roma. Nel frattempo, dunque - e probabilmente subito dopo il soggiorno in Assisi e comunque prima del dicembre del 1311 - G. doveva essere tornato in quella città, per motivi che ci restano sconosciuti. Agli anni fiorentini invece si possono assegnare diverse opere, nelle quali G. gradualmente si allontana dal classicismo padovano e sembra essere in cerca di una maggiore eleganza nel disegno, morbidezza nel modellato e più pronunciati accenti realistici nel racconto. A questo momento appartiene probabilmente la Dormitio Virginis della Gemäldegalerie di Berlino, proveniente dalla chiesa di Ognissanti e spesso considerata, ma senza argomenti probanti, coeva alla Maestà degli Uffizi. La raffinata asimmetria della composizione, affollata da figure di statura assai alta, la incisiva profilatura di queste ultime e alcune soluzioni che richiamano ormai gli affreschi della cappella Peruzzi, lasciano pensare a una data di esecuzione di qualche tempo successiva.

Il celebre ciclo della quarta cappella del transetto destro di S. Croce a Firenze è stato variamente datato; ma la critica più recente è in genere concorde nel ritenerlo eseguito all'inizio dal secondo decennio. Ciò, sia perché il committente, Donato di Arnaldo Peruzzi, imponeva che la cappella venisse costruita entro dieci anni dalla morte (e il Peruzzi è ricordato per l'ultima volta nel 1299), sia perché per le impalcature necessarie all'affrescatura furono utilizzate le stesse buche pontaie servite ai muratori; e dunque la decorazione dovette seguire senza soluzione di continuità (Tintori - Borsook, 1965). Gli argomenti decisivi per stabilire la data delle pitture sono comunque quelli deducibili dall'analisi stilistica, operazione certo difficoltosa a causa del precario stato di conservazione del ciclo, non realizzato a buon fresco e molto danneggiato dalle puliture e dai rifacimenti succedutisi nei secoli. Ma, sebbene l'originale condotta pittorica oggi non sia più giudicabile, resta evidente la grandiosità delle idee compositive, la salda volumetria e la gravità (si potrebbe quasi dire peso fisico) delle figure, inserite in elaborati e preziosi scenari. Per facilitare la lettura delle scene, visibili solo di scorcio a causa della strettezza del vano, le strutture architettoniche sono sempre poste leggermente ad angolo rispetto alla superficie; ciò serve anche per introdurre un elemento di dinamismo nelle scene abitate da figure statuarie, bloccate in atteggiamenti solenni. Sembra evidente l'ulteriore passo in avanti compiuto qui dall'artista rispetto al momento della cappella della Maddalena ad Assisi, al quale questo ciclo stilisticamente vicino dovette seguire a pochi anni di distanza.

La cappella Peruzzi è dedicata ai due santi Giovanni: tre Storie del Battista ne ornano la parete sinistra, e altrettante dell'Evangelista quella di fronte. Probabilmente proprio le dimensioni considerevoli delle scene (m 2,5 x 4,3 circa) spiegano il ricorso dell'artista a quinte architettoniche particolarmente poderose. L'effetto di verità degli scenari prospettati è affidato invece al rapporto più razionale tra la popolazione delle scene e gli edifici che le ospitano; strutture che almeno in parte riproducono monumenti esistenti (la basilica del Santo a Padova e la romana torre delle Milizie). L'attenzione dello spettatore viene focalizzata sul fulcro dell'azione da alcuni gesti ampi e risoluti che interrompono bruscamente la scansione regolare delle figure, come la posa possente dell'Evangelista che allunga il braccio per richiamare in vita Drusiana, o quella dell'uomo chinato che guarda incredulo nella tomba vuota del santo. Sono brani che quasi calamitano lo sguardo e che non a caso sono stati ammirati e copiati da generazioni di artisti, da Masaccio a Michelangelo.

Se G. aveva dipinto anche la tavola d'altare della cappella Peruzzi (Ghiberti ricorda in S. Croce l'esistenza di quattro cappelle e quattro tavole dipinte dal maestro), questa è probabilmente da identificare con il Polittico del North Carolina Museum of art (Raleigh, NC) col busto del Cristo benedicente affiancato da quelli di s. Giovanni Evangelista e Maria da un lato e del Battista e di s. Francesco dall'altro. Il complesso proviene evidentemente da una chiesa francescana e appare del tutto plausibile la proposta di Suida (1931) che per primo identificò tale chiesa con S. Croce. La paternità giottesca è in genere accolta negli interventi più recenti, sebbene la qualità dell'esecuzione, "altissima" per Bologna, secondo alcuni non corrisponda a quella delle opere autografe. Non trova invece consensi critici (con l'eccezione di Tomei, 1995) l'ipotesi di Bologna di riconoscere in una tavola di Dresda (Staatliche Kunstsammlungen), Il Battista in carcere visitato dai discepoli, un elemento delle raffigurazioni sul tergo del polittico il quale, secondo lo studioso, in origine sarebbe stato bifronte. Sembrano invece di stile e qualità pienamente degne di G. parti di una vetrata, oggi nel Museo di S. Croce (busti di un Personaggio veterotestamentario e di due Santi diaconi: Boskovits, 1984) che, generalmente ignorate dai più recenti studi giotteschi, illustrano aspetti della "fase Peruzzi".

A un momento ancora più avanzato dovrebbero risalire poi alcune tavole per un motivo o per l'altro problematiche. Il Crocifisso di Ognissanti, elencato tra le opere di G. da una fonte autorevole quale Ghiberti, è citato dai critici recenti per lo più come opera di bottega, databile ormai al terzo decennio, anche se non manca qualche proposta che ne anticipi l'esecuzione alla prima metà del secondo decennio del Trecento (Flores d'Arcais, 1995) o ne rivendichi l'autografia giottesca (Boskovits, 1993). Infatti, se la Croce, come la Dormitio Virginis di Berlino, era destinata a decorare il tramezzo della chiesa (Hueck, 1992), la sua esecuzione non dovrebbe essere stata cronologicamente troppo distante. D'altronde le espressioni di sommesso dolore nelle figure di Maria e di s. Giovanni, il modellato condotto con misuratissime gradazioni tonali e la sicura volumetria delle forme, che si delineano con potenza davvero giottesca da sotto le stoffe setose, rivelano qualità degne del maestro.

Problemi di altro genere alimentano il dibattito attorno a quattro tavole, la Madonna col Bambino della National Gallery di Washington, i ss. Giovanni evangelista e Lorenzo sormontati da mezze figure di angeli del Musée Jacquemart-André di Châalis (Oise) e il S. Stefano della Fondazione Horne di Firenze, considerate componenti di un unico polittico da Longhi (1930-31), secondo cui si tratterebbe di opere autografe del maestro, eseguite verso il 1315-20.

Fino a tempi recenti la proposta è stata concordemente accolta, con qualche riserva, semmai, per le tavole del museo francese, nelle quali diversi studiosi avvertivano l'intervento di aiuti. Più che della collaborazione di aiuti di bottega si doveva parlare però di estesi rifacimenti che sono stati tolti in occasione della recente pulitura delle tavole di Châalis. Ancora oggi, tuttavia, si può confermare il parere di Gnudi (1958) e di Salvini (1962) sulla vicinanza stilistica di questi pannelli agli affreschi della cappella Peruzzi (Flores d'Arcais, 1995). Nella tavola della Fondazione Horne da tempo vengono invece giusta
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